Il miglio verde
King Stephen
Sperling & Kupfer, 2008
Libro e autore non hanno certo bisogno di presentazioni. Il primo perché è stato reso celebre dal cinema anche al pubblico dei non lettori; il secondo perché è tra i narratori più conosciuti del nostro tempo, probabilmente il più noto in America (anche grazie al cinema). Viene definito il Re del brivido per i suoi testi al cardiopalma, la naturalezza e la finezza di particolari delle sue descrizioni inquietanti: ricordo ancora il cigolio dell'ascia che viene con difficoltà estratta dalle ossa di una caviglia in Misery. Ne Il Miglio Verde invece, King dà non solo prova di sapersi destreggiare al di fuori delle sue mura – se così si può dire – ma anche di saper cogliere quei punti interrogativi racchiusi in ognuno di noi, di stimolare e indurre a riflessioni più profonde.
Siamo nel 1932; nel carcere di Cold Mountain i detenuti aspettano di morire sulla sedia elettrica. Paul Edgecombe, secondino in quegli anni, ora detenuto di una casa di riposo per anziani, ricorda quel che è stata la sua vita; soprattutto però, ricorda e scrive di quel particolare anno al carcere in cui accaddero tante cose. È l'anno in cui arriva al Blocco E John Coffey, un nero gigantesco condannato a morte per aver stuprato e ucciso due bambine bianche. Non crea noie, ha paura del buio e parla poco: un orso addomesticato si direbbe, quasi si stenta a credere alle atrocità di cui si è macchiato. Ma Paul lo sa, e lo sanno Dean, Harry e Brutus; sanno che l'istinto di uccidere può essere la follia di un momento, una follia irripetibile ma che nella sua irripetibilità porta a tragedie irreparabili. C'è però qualcosa di strano in John Coffey “come il caffè ma scritto diverso”, nei suoi occhi, nelle sue mani: quel qualcosa di irreale e soprannaturale che c'è in tutta l'opera di Stephen King. Paul ricorda, lo fa per raccontare la storia di John Coffey, ma per farlo ha bisogno di ricostruire i volti dei compagni, degli altri detenuti, i contorni annebbiati di quei fatti lontani. Deve ricordare Mister Jingles, il topo che arrivò da chissà dove; deve tornare nella cella di Eduard Delacroix, deve attendere l'arrivo dello psicopatico “Billy The Kid” Wharton.
King costruisce un vero capolavoro e lo fa attraverso i ricordi di Paul. Ci porta laddove non
entreremmo mai e lo fa in una forma che il cinema non mostrerebbe mai: umanamente. Sì, umano è il termine giusto per descrivere i vari personaggi di questa storia (ad eccezione di Wharton e di Percy). Fuori da ogni pregiudizio e stereotipo, assistiamo all'instaurarsi di rapporti tra guardie e detenuti, pur nel rispetto dei rispettivi ruoli e destini. Già, perché alla fine c'è sempre lei ad attendere, la sedia degli orrori, c'è sempre un giustiziato e un giustiziere: è la vita, la legge, la giustizia/ingiustizia.
Non credo però che King ci racconti questo per ricordarci di quanti innocenti sono condannati a morte ogni anno: sarebbe riduttivo e banale. Certo, innanzitutto ha voluto raccontare – è il suo lavoro – ma vuole anche metterci davanti all'irrisolto dilemma di ciò che è bene o male: a volte confusi, altre volte invertiti, non possono tuttavia sfuggire alle leggi: ognuno vuole la propria personale giustizia e l'avrà, al di là del bene e del male. Possiamo porci mille domande, ma sarà sempre il buio a dominare la vita, e un Miglio Verde che attende il nostro passaggio c'è per ognuno: che lo vogliamo o no, nel bene o nel male, “le nostre palle friggeranno comunque”.
© Alessandro Giova
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