Colpi di Penna - Recensioni di libri: settembre 2011

venerdì 30 settembre 2011

Petrolio in paradiso - Sabina Morandi

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Petrolio in paradiso
Sabina Morandi
Ponte delle grazie, 2005
p.228

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Petrolio in paradiso: il classico libro che non t'aspetti, finito tra le tue mani per caso in una bancarella dell'usato. Unica fonte di attrazione, il titolo: Petrolio in paradiso, appunto.
Scritto nel 2005 da Sabina Morandi, giornalista che scrive di biotecnologie e ambiente per numerose testate, il libro è attualmente fuori catalogo, tuttavia se ne possono trovare copie su qualche libreria online.
Non è propriamente un romanzo, né una semplice inchiesta giornalistica, bensì un thriller ecologico che mischia alla realtà inventata dall'autrice, la verità nascosta di avvenimenti attualissimi. Nonostante non sia un'opera puramente letteraria della quale esaltare la nuda bellezza narrativa, è un libro che definisco bello per il suo portato di denuncia e verità che contiene.

Laura, giovane antropologa, viene assunta per una spedizione in Ecuador dalla Sartilo, società italiana specializzata in prospezioni petrolifere. Il suo ruolo sarà quello di mediatrice culturale con gli indios locali. Conosce poco del progetto aziendale, non sa che nessuno si aspetta di trovare dei nativi in quella terra vergine, ancestrale, né tanto meno s'immagina che i lavori di prospezione verranno effettuati in una riserva naturale protetta, e anche qualora spuntino dei “selvaggi”, una lauta somma offerta agli indigeni sarebbe l'unica mediazione per la distruzione del loro habitat. Laura non è l'unica protagonista di questa storia; oltre ai suoi colleghi c'è, dal lato opposto, Cesar, giovane kichwa che ha studiato alla scuola dei bianchi e ora presiede il primo consiglio kichwa riconosciuto dal governo.
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I kichwa sono l'antica popolazione che abita quei luoghi; antichi cacciatori e guerrieri, sono ormai ridotti a pigri bevitori dell'alcol portato dai bianchi. È una tribù destinata a scomparire per lasciare spazio al progresso, la cui sola scelta è morire con le proprie origini o emigrare tra il puzzo cittadino per evolversi in mendicanti. Bianchi e kichwa, in un crescendo drammatico, si incontrano in quel paradiso di mezzo, terra primordiale da sfruttare per i bianchi, patria e tradizione da salvare per i nativi.
La Morandi sa mediare molto bene tra le due storie, introducendo in ogni capitolo un frammento di storia reale: dalla nascita del movimento politico degli indios nel mondo, allo sterminio nascosto di molti popoli operato dalle multinazionali del petrolio. “Nessuna presenza indigena” è ciò che viene riferito. Non mancano attimi di pura espressione narrativa, momenti in cui la Morandi si lascia andare – e lascia che ne prendiamo parte – alla descrizione dei luoghi, alle sensazioni date da quella terra in cui si erge il vulcano Tristeza, che davvero sa di paradiso e che molti, ingratamente, vorrebbero distruggere nel nome del progresso: ma qual è il vero prezzo da pagare?

Alla fine del libro si trovano gli indirizzi web degli indigeni e altri link per approfondire l'argomento. Immancabili i ringraziamenti, i quali vanno alle persone che lavorano nel settore petrolifero, ai ragazzi della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, ai gruppi indigeni e in particolare ai Sarayaku dell'Ecuador, che combattono contro l'invasione del loro territorio opponendo, ai fucili dei soldati, l'arma della denuncia e dell'azione nonviolenta.
Così conclude Sabina Morandi: “La speranza è che la storia romanzata ispirata dalla loro vicenda, susciti interesse e curiosità per quella vera”.
Sì, questo libro merita una seconda possibilità.
© Alessandro Giova

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venerdì 23 settembre 2011

Il peso della farfalla - Erri de Luca

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Il peso della farfalla
Erri De Luca
Feltrinelli, 2009

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E' dolce e silenziosa come i passi sulla neve la scalata fino alla cima di queste 60 pagine e poco più. Una favola, la storia di un duello rinviato per anni: il bracconiere e il re dei camosci si sono rincorsi per molto tempo, entrambi sentono che è giunto il loro ultimo inverno; hanno ancora forza nelle gambe, ma è il sangue pulsato dal cuore che s'è fatto debole. L'ultimo colpo per l'uomo, l'ultimo calore per il re dei camosci prima d'essere spodestato da uno dei suoi giovani figli.
Il re dei camosci imparò a riconoscere fin da piccolo l'odore dell'uomo e del suo fucile, quando, ancora cucciolo, rimase orfano per mano del cacciatore. Divenne forte, crebbe selvaggiamente e quando arrivò il momento divenne re grazie a un duello: un sol colpo nel fianco del maschio rivale.
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Imparò a scoprire, la solitudine gli fece battere sentieri sconosciuti agli altri camosci:“In ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove. Sono una quota sperimentale che va alla deriva. Dietro di loro la traccia aperta si richiude”. Ma giunse il suo inverno. Re, ancora, per una sola stagione. Dovrà perire, soccombere al nuovo re o rifugiarsi in alto, lontano dal branco, lasciandosi morire.
Il cacciatore – re dei camosci a suo modo - scalava pareti con facilità, nessuno possedeva la sua abilità nel far perdere le tracce lungo sentieri all'apparenza inaccessibili. Gli manca il premio più ambito: il re. Sente che le sue forze non sono più quelle di un tempo: sarà forse la sua ultima caccia, l'ultimo schiocco di fucile per uscire vincitore in quel duello differito negli anni. Sa di essere il più crudele, per questo non racconta le proprie avventure in osteria. Quel che non sa, è che più degli altri riesce a sentirsi parte di un disegno complessivo di cui lui è parte integrante e irrinunciabile, per questo lui e non un altro è il protagonista di questa storia. E come per il Santiago de Il vecchio e il mare, gli anni di caccia hanno fatto maturare in lui saggezza e rispetto: ha imparato a non commettere errori, ad uccidere soltanto certi tipi di bestie, a riconoscere nell'animale ucciso qualcosa di nobile; nobiltà che non merita di essere pasto facile per gli uccellacci neri divoratori di carogne (o pescecani in Hemingway): ha bisogno di una fine dignitosa.
La fine non è crudele, né atroce, ma un inevitabile passo che lascia ad ognuno il proprio meritato trono.
© Alessandro Giova
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giovedì 15 settembre 2011

Uomini che odiano le donne - Stieg Larsson

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 Uomini che odiano le donne
Stieg Larsson
Marsilio

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 Il protagonista del romanzo è l'affascinante quarantenne Mikael Blomkvist, un giornalista che si occupa prevalentemente di economia e lavora per il mensile Millennium, di cui è socio con Erika Berger e Christer Malm. Mikael ha alle spalle un matrimonio fallito, ha una figlia quasi adulta che non vede quasi mai e una specie di ménage à trois con Erika, che è sposata ma ha con lui una manifesta e pluriennale relazione sessuale nonché d'amicizia.
Quando la storia inizia siamo a Stoccolma, dicembre 2002, a ridosso di Natale: Mikael è appena uscito con le ossa rotte da un processo che lo vede condannato a sei mesi di carcere per diffamazione nei confronti del potente finanziere Wennerström. Per evitare che la sua condanna, che ha suscitato uno scalpore enorme nel mondo giornalistico, si ripercuota negativamente nei confronti della rivista di cui è proprietario, Mikael si autosospende da Millennium nonostante i suoi soci non siano molto d'accordo nello scaricarlo anche solo apparentemente.
Nel frattempo, dall'altra parte della Svezia, nell'isola di Hedeby, un vecchio uomo d'affari in pensione da tempo, Henrik Vanger, dopo aver ricevuto per posta il quarantesimo fiorellino incorniciato che gli viene recapitato annualmente per il suo compleanno da quando la sua famiglia è stata funestata dalla scomparsa di Harriet, la sua nipote prediletta (figlia del suo fratello defunto), decide di non voler morire senza prima aver saputo che fine abbia fatto la sua pupilla, scomparsa da Hedestad quarant'anni prima senza lasciare traccia.
Il terzo filone della storia riguarda Lisbeth Salander, una giovanissima e apparentemente semianoressica ed asociale hacker che lavora per la Milton Security, un'azienda che si occupa di sistemi di sicurezza per la sua clientela ma che, tra i vari servizi offerti, reperisce informazioni su persone o aziende. Lisbeth, la ricercatrice punta di diamante della Milton Security, a causa dei suoi trascorsi è affidata ad un tutore col quale tutto sommato si trova bene; improvvisamente costui non può più occuparsi di lei poiché è stato colpito da un ictus, pertanto viene "affidata" ad un nuovo tutore, il viscido avvocato Nils Bjurman, che si manifesterà al lettore come il primo uomo che odia le donne, nei confronti del quale Lisbeth, da vittima, si trasformerà in carnefice, riappropriandosi così della sua vita e della sua autonomia.
 

Un mondo di stranezze letterarie su AbeBooks.it
Le storie di questi tre personaggi e di tanti altri ancora si intrecceranno fin quando la storia si dipanerà mostrando tutta una serie di uomini che odiano le donne da una parte, e dall’altra donne capaci non soltanto di ribellarsi alla violenza usata nei loro confronti dagli uomini, ma anche di riprendere in mano la propria vita, nonostante tutto.

Stieg Larsson non ha avuto la buona sorte di vedere pubblicato questo romanzo né gli altri due, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta che compongono la trilogia Millennium (stesso nome della rivista della quale Blomkvist è proprietario) e questa credo sia una delle ragioni per cui il romanzo sembra essere stato pubblicato "grezzo", senza tagli e modifiche necessari, con una serie infinita di spunti, alcuni portati avanti e altri no.
Ho la sensazione che il romanzo sia stato pubblicato così come risultava essere nella sua ultima versione, magari con qualche aggiustatina ma non sostanziale, e voglio anche pensare che se Larsson fosse rimasto in vita per poter vedere pubblicata la sua opera, probabilmente il romanzo avrebbe avuto una faccia differente. Ecco: in Uomini che odiano le donne è come se ci fossero troppi ingredienti: tutto molto saporito ma forse un po' troppo saporito. Nonostante questo il libro è godibile e ne consiglio la lettura.
© advenimiento


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giovedì 1 settembre 2011

L'eleganza del riccio - Muriel Barbery

L' eleganza del riccio
Barbery Muriel
E/O, 2007

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Caso letterario del 2007 in Francia divenuto celebre grazie ad un passaparola tra lettori, L'eleganza del riccio è un libro che ho deciso di leggere proprio per via di un passaparola e di cui già le prime pagine lasciano intuire il motivo del successo.
Si tratta di un doppio diario tenuto da due inquiline del n°7 di Rue de Grenelle a Parigi: Paloma, la figlia dodicenne dall'intelligenza fuori dal comune dei Josse (padre deputato e madre in analisi laureata in lettere) e Renée: Madame Michel, la portinaia cinquantaquattrenne del ricco condominio.
Due esistenze apparentemente innocue, ma che in realtà celano grandi complessità: la prima ha progettato di suicidarsi e di incendiare la propria casa il giorno del suo tredicesimo compleanno per non finire nella “boccia dei pesci rossi” in cui finiscono tutti gli adulti; la seconda, all'apparenza una banalissima portinaia ignorante che incarna tutti i cliché tipici della sua categoria, è in realtà una grande appassionata di arte, filosofia, letteratura e cultura in generale.
Due esistenze che raccontano la loro vita viaggiando su treni diversi, le quali però si incontrano grazie all'arrivo del nuovo inquilino: il ricchissimo giapponese Monsieur Ozu. Entrambe appassionate di cultura giapponese, trovano nel nuovo arrivato un'esistenza reale e completamente distante da quelle che le circondano, una cultura che irrompe nella loro quotidianità fatta di persone banali e insulse, fatta eccezione per Marguerite, compagna di classe e unica amica di Paloma, e Manuela, la domestica portoghese unica amica di Renée. Due esistenze così solitarie, così chiuse a riccio, non potevano restare indifferenti l'una all'altra, e diventano protagoniste di un'amicizia improbabile che porterà a galla la loro più intima essenza.
Tra le numerose dissertazioni filosofiche, il romanzo fa anche riflettere piacevolmente sulla condizione dell'uomo in questo mondo in maniera divertente e profonda, grazie agli occhi e ai pensieri di una ragazzina; grazie agli occhi e ai pensieri di una donna di mezza età.
© R.F.

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Norwegian wood - Haruki Murakami

Norwegian wood. Tokyo blues
Murakami Haruki
Einaudi, 2006

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Leggere questo libro è un po' come avere per le mani i petali di un fiore. La scrittura di Murakami Haruki è gentile ed elegante, pacata e delicata, pur non risparmiando nulla: non risparmia momenti difficili, atmosfere cupe, ricordi crudeli, ma tutto appare narrato con straordinaria calma.
Forse perché nel momento in cui il protagonista Tōru Watanabe racconta, sono passati vent'anni dagli eventi dolorosi che ha vissuto e quel dolore adesso è lenito dal tempo e dagli eventi. Vent'anni improvvisamente annullati da una melodia, quella di Norwegian Wood dei Beatles che si diffonde dagli altoparlanti dell'aereo in cui Watanabe viaggia e ci riporta nella Tokyo del 1968. È proprio lì che si ritrovano Watanabe e Naoko dopo la morte di Kizuki, il ragazzo di lei e migliore amico di lui ed è proprio lì che prendono il via due anni difficili, in cui il protagonista fa la conoscenza di diverse persone, ognuna delle quali segna la sua vita in modo dolce e amaro: c'è Sturmtruppen, il suo compagno di stanza all'università, maniaco della pulizia e della ginnastica alle sei di mattina; c'è Nagasawa, che legge solo libri di scrittori morti da almeno trent'anni ad eccezione di Fitzgerald e colleziona notti con donne sconosciute; c'è Hatsumi, la sua ragazza, che lo accetta; c'è Reiko, che ha scelto di vivere in un involucro per proteggersi; c'è Naoko, che ama dal profondo del cuore e che forse un giorno guarirà e Midori, esplicita e schietta, che ama ma in maniera diversa e forse un giorno potrà dargli la serenità.
Norwegian Wood ci parla di sentimenti e di promesse, di quanto è difficile mantenerle ma di come sia inevitabile farlo; i protagonisti sono tutti ventenni -anno più, anno meno- che si trovano a vivere situazioni più grandi di loro, ricoperti di responsabilità che non avevano chiesto di avere ma che assumono in sé stessi con grande forza. Il romanzo ci mostra il profondo legame che esiste tra la vita e la morte, di come chi è in vita debba capire e accettare questo legame proprio per continuare a vivere; ci insegna che le parole sono la fonte fondamentale del ricordo e probabilmente anche della sopravvivenza: l'autore, in una postilla al romanzo, dichiara: “Forse questo libro chiedeva di essere scritto più di quanto io stesso mi rendessi conto” e lo dedica “a tutti i miei amici che sono morti e a quelli che restano”.
© R.F.

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Il miglio verde - Stephen King

Il miglio verde
King Stephen
Sperling & Kupfer, 2008

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Libro e autore non hanno certo bisogno di presentazioni. Il primo perché è stato reso celebre dal cinema anche al pubblico dei non lettori; il secondo perché è tra i narratori più conosciuti del nostro tempo, probabilmente il più noto in America (anche grazie al cinema). Viene definito il Re del brivido per i suoi testi al cardiopalma, la naturalezza e la finezza di particolari delle sue descrizioni inquietanti: ricordo ancora il cigolio dell'ascia che viene con difficoltà estratta dalle ossa di una caviglia in Misery. Ne Il Miglio Verde invece, King dà non solo prova di sapersi destreggiare al di fuori delle sue mura – se così si può dire – ma anche di saper cogliere quei punti interrogativi racchiusi in ognuno di noi, di stimolare e indurre a riflessioni più profonde.

Siamo nel 1932; nel carcere di Cold Mountain i detenuti aspettano di morire sulla sedia elettrica. Paul Edgecombe, secondino in quegli anni, ora detenuto di una casa di riposo per anziani, ricorda quel che è stata la sua vita; soprattutto però, ricorda e scrive di quel particolare anno al carcere in cui accaddero tante cose. È l'anno in cui arriva al Blocco E John Coffey, un nero gigantesco condannato a morte per aver stuprato e ucciso due bambine bianche. Non crea noie, ha paura del buio e parla poco: un orso addomesticato si direbbe, quasi si stenta a credere alle atrocità di cui si è macchiato. Ma Paul lo sa, e lo sanno Dean, Harry e Brutus; sanno che l'istinto di uccidere può essere la follia di un momento, una follia irripetibile ma che nella sua irripetibilità porta a tragedie irreparabili. C'è però qualcosa di strano in John Coffey “come il caffè ma scritto diverso”, nei suoi occhi, nelle sue mani: quel qualcosa di irreale e soprannaturale che c'è in tutta l'opera di Stephen King. Paul ricorda, lo fa per raccontare la storia di John Coffey, ma per farlo ha bisogno di ricostruire i volti dei compagni, degli altri detenuti, i contorni annebbiati di quei fatti lontani. Deve ricordare Mister Jingles, il topo che arrivò da chissà dove; deve tornare nella cella di Eduard Delacroix, deve attendere l'arrivo dello psicopatico “Billy The Kid” Wharton.

King costruisce un vero capolavoro e lo fa attraverso i ricordi di Paul. Ci porta laddove non
entreremmo mai e lo fa in una forma che il cinema non mostrerebbe mai: umanamente. Sì, umano è il termine giusto per descrivere i vari personaggi di questa storia (ad eccezione di Wharton e di Percy). Fuori da ogni pregiudizio e stereotipo, assistiamo all'instaurarsi di rapporti tra guardie e detenuti, pur nel rispetto dei rispettivi ruoli e destini. Già, perché alla fine c'è sempre lei ad attendere, la sedia degli orrori, c'è sempre un giustiziato e un giustiziere: è la vita, la legge, la giustizia/ingiustizia.
Non credo però che King ci racconti questo per ricordarci di quanti innocenti sono condannati a morte ogni anno: sarebbe riduttivo e banale. Certo, innanzitutto ha voluto raccontare – è il suo lavoro – ma vuole anche metterci davanti all'irrisolto dilemma di ciò che è bene o male: a volte confusi, altre volte invertiti, non possono tuttavia sfuggire alle leggi: ognuno vuole la propria personale giustizia e l'avrà, al di là del bene e del male. Possiamo porci mille domande, ma sarà sempre il buio a dominare la vita, e un Miglio Verde che attende il nostro passaggio c'è per ognuno: che lo vogliamo o no, nel bene o nel male, “le nostre palle friggeranno comunque”.
©  Alessandro Giova

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