Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra
Strada Gino
Feltrinelli, 2003
€6,50
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Dopo aver letto questo libro più e più volte, faccio una fatica tremenda a provare a raccontarlo. Mi rendo conto che la mia è la fatica di chi, comodamente seduto, legge un libro con la testa ingombra di sciocchezze: non ci sono pensieri paragonabili a chi cerca di soddisfare un bisogno primario nella mia testa e quindi, così come chi ha la pancia piena non potrà mai capire cosa significhi la fame, credo non potrò mai capire cosa significhi essere una persona (bambino o adulto) in un territorio di guerra e restare mutilato da un ordigno che arriva da lontano.
Nel 1997, anche grazie alle pressioni di Emergency e di Gino Strada, autore di questo libro, l’Italia smise di produrre e commercializzare le mine antiuomo: sono passati circa quindici anni ma sapere che tanti sono rimasti vittima di uno dei tanti “Made in Italy” pre-1997 mi annebbia la mente, mi ferisce; queste mine che ancora ricoprono chissà quanti territori gettano su di noi una vergogna che si estenderà sulle generazioni future, fino a quando ci saranno vittime.
Come si fa a immaginare cosa possa essere passato per la testa del povero bimbo che, magari aiutando il papà al pascolo o semplicemente giocando con le sue povere cose, abbia avuto la sfortuna di calpestare una mina antiuomo e abbia sentito, ma troppo tardi, il “clic” col quale la mina si sia innescata?
Questo libro, oltre a raccontare le singole storie nelle quali, in giro per il mondo, Gino Strada si è imbattuto, non racconta i pensieri delle vittime sopravvissute, orrendamente mutilate, a queste esplosioni, ma parla dei loro sguardi, della loro reazione – mai rabbiosa ma quasi rassegnata - ad un evento che oltre a colpirli nel corpo, vittime innocenti di decisioni bellicose altrui, ha cambiato il loro futuro: riusciamo a capire cosa possa significare essere mutilati o ciechi in civiltà dove non esistono pensioni di invalidità o indennità di accompagnamento? Riusciamo ad immaginare quale possa essere la prospettiva di crescita senza una gamba in un posto dove non è possibile neanche reperire una protesi?
Aneddoto
In questo libro, tra le varie storie raccontate, ce n’è una che riguarda la famiglia di Gino Strada, chirurgo di guerra, spesso assente per mesi e mesi dall’Italia e da casa, che una volta venne raggiunto a Quetta, località pakistana al confine con l’Afghanistan, dall’ormai defunta moglie Teresa e dalla figlia Cecilia in un’epoca in cui non c’erano cellulari e quindi anche comunicare era spesso impossibile.Cecilia, attualmente presidente del consiglio direttivo di Emergency, allora era una bambina di soli 9 anni e, sentendo la mancanza di suo padre, aveva messo le sue foto sotto al cuscino; quando sua madre se ne accorse, decise di portarla in Pakistan in modo tale che potesse capire quale fosse la ragione per la quale suo padre stava tanto tempo lontano da casa. Arrivate a Quetta, nel cuore della notte Strada ricevette la telefonata dall’ospedale perché c’era bisogno di lui: Cecilia si era svegliata e si era preparata ad andare anche lei in ospedale dove cinque feriti da una mina russa, due adulti e tre bambini, aspettavano di essere operati. Teresa, visto lo scempio dei corpi, uscì dalla stanza in lacrime ma Cecilia no, rimase lì accanto a suo padre e assistette in silenzio anche all’operazione di uno dei bimbi cui venne amputata una mano. Terminato l’intervento, il bambino, ormai sveglio e camminando sulle proprie gambe, venne accompagnato in camera: Cecilia, riconosciutolo, chiese a suo padre se era lo stesso del quale aveva assistito all’operazione e, ricevuta la conferma che si trattasse della stessa persona, chiese a suo padre per quale ragione non piangesse. Strada racconta allora che per ore parlarono del fatto che quei bimbi, contrariamente a quelli del ricco Occidente che si rotolano per terra per togliere un cerotto, non piangono a causa della “(…) miseria che si fa routine, della presenza silenziosa della tragedia, e a volte della morte, che diventa condizione di vita. Forse è questa quotidianità della tragedia che li prepara a non piangere. (…)”, pag. 91.
Conclusioni
Questo libro, scritto da un chirurgo che non è scrittore, ha il pregio di scardinare tanti pregiudizi, in particolar modo quelli razziali, e ci fa capire che un uomo è un uomo a prescindere dalla razza e dalla religione, che i bambini afghani, curdi, africani o sudamericani hanno i nostri stessi occhi, sono amati dai propri genitori come i nostri figli sono amati da noi, e per quanto siano costretti a crescere in fretta da circostanze di vita dure – nelle quali noi non saremmo capaci di resistere una sola settimana - sono pur sempre bambini che hanno voglia di giocare ma, a differenza dei nostri, la guerra la vedono fuori dalla finestra e non dentro al monitor del PC o del televisore.
I diritti d'autore di questo libro finanziano la meritoria attività di Emergency.
Recensione a cura di Advenimiento